Intervista con Massimiliano Viel

A qualche mese di distanza dall’uscita di Un anno, a partire da lunedì. Dopo Silenzio, la seconda raccolta di scritti di Cage pubblicata da Shake, ecco un’intervista con Massimiliano Viel che è responsabile di questa nuova collana di scritti sulla musica iniziata appunto con il volume cageano. Ringraziandolo per la gentile disponibilità, vi auguro una buona lettura.

1) Come nasce l’idea di pubblicare un testo come Un anno, a partire da lunedì? E l’aggiunta al titolo di Dopo Silenzio vuole essere un aggancio al volume che cronologicamente lo precede? Come mai lo avete messo?

In primo luogo nasce dalla creazione di una collana editoriale che vuole portare all’attenzione del lettore italiano curioso, ma anche dell’esperto, gli scritti e le riflessioni di compositori dal secondo Novecento in avanti. Questo, perché ho sentito l’esigenza di riportare i lettori alle testimonianze di prima mano di un mondo, in particolare quello della musica, che è in grande trasformazione. Di riportare quindi i lettori a un fare musica che è anche e soprattutto pensiero.
“Dopo Silenzio” come sottotitolo è certamente una scelta editoriale che vuole indicare a un tempo il legame con il testo precedente, con il quale condivide la natura antologica autobiografica, e la continuità editoriale con la precedente pubblicazione di “Silenzio” da parte della stessa Shake.

2) Per certi versi credo che le raccolte di testi di Cage siano dei proto-ipertesti: anticipano di qualche decennio quello che adesso esperiamo tutti i giorni con internet. È questa sua (di Cage) attualità, la forza di questo libro?

In effetti, nel testo di Cage sono presenti continue citazioni dirette, trasfugurate, ricontestualizzate eccetera; David Patterson, nel “Cambridge Companion to John Cage”  curato da Nicholls, ne individua 5 tipologie. Ci sono poi rimandi ad artisti, letterati e inventori. Il che fa capire quanto intensa fosse l’attività culturale di quell’epoca e quanto povera sia in confronto quella di adesso.
Si può allora pensare di essere di fronte a un ipertesto, anche se in realtà questo flusso mi ricorda piuttosto una dorsale atlantica, il cavo che collega diversi continenti a internet e in cui i dati di milioni di utenti passano e in un certo qual modo si fondono tra di loro per realizzare l’essere umano della società globale.
Bisogna però dire che questo modo di scrivere è almeno debitore dei lavori di Pound e Beckett, per nominare solo due degli autori che hanno frequentato la tecnica di scrittura del flusso di coscienza, ma soprattutto della scrittura di James Joyce, autore dell’Ulisse e del vertiginoso Finnegans Wake. Va ricordato come questi testi hanno molto influenzato i compositori del Novecento che li hanno usati esplicitamente come testi da musicare, si pensi a Cage e Berio, o semplicemente da leggere e a cui ispirarsi, come Boulez e Stockhausen. Dunque gli scritti di Cage rimandano certamente a questo stile che rappresenta non solo un modo di presentarsi di certa letteratura del Novecento, ma anche, attraverso la televisione prima e di internet e del cellulare poi, un modo, nel bene o nel male, fondamentale in cui la mente, un po’ come la scimmia ubriaca del buddhismo, si rapporta con il mondo.

3) John Cage era solito ‘usare’ materiali altrui come base per lavori suoi – parlando di testi scritti vengono subito in mente i mesostici – fornendo una prova di come vecchie idee possono generarne di nuove. È possibile che ciò accada anche con questo suo libro?

Sicuramente, nei suoi testi e nelle sue musiche, Cage ha fatto riferimento ad altri autori in vari modi, di cui la citazione diretta è soltanto uno.  
Tuttavia è raro che Cage faccia delle semplici citazioni senza utilizzare modifiche, magari attraverso “azioni disciplinate”, che rendono irriconoscibile la fonte originale, come in “Cheap Imitation” con Satie o in “Empty Words” con Thoreau.
In “Un anno da lunedì” le citazioni dirette non abbondano, anzi sono piuttosto rare, ma in compenso troviamo un flusso di riferimenti anche incrociati, che non vogliono appoggiarsi sulla declinazione di nomi, come avviene con i mesostici, ma seguono invece il filo del suo pensiero in libertà.

4) Tutte le volte che esce un libro o un disco di Cage mi domando, sapendo come lui cercasse idee nuove guardando sempre avanti, quale senso abbia un’operazione del genere. Non sembra di ‘violare’ un principio cageano di base? Un po’ come il piacevole ossimoro della ‘volontà di fare le cose a caso’, ciò che Cage definiva purposeful purposelessness?

C’è una grande differenza tra un libro con gli scritti di Cage e un disco con interpretazioni dei suoi lavori. Certamente Cage non era contrario alla pubblicazione dei suoi testi, e questo è comprensibile dato che i suoi scritti, perdona la tautologia, non potendo essere resi pubblici senza appunto una pubblicazione, erano fatti proprio per essere pubblicati. E lo stesso vale per le sue partiture! Non ha senso scrivere una partitura che nessuno può avere perché non viene pubblicata (e tra l’altro questo è un grande problema di oggi). Invece, è noto che Cage non fosse un fan delle registrazioni dei suoi brani. Per lui la musica nasce da un incontro tra una mente creativa che “provoca” in qualche modo il suono e l’ascoltatore, anche lui creativo a suo modo. Ma questo vale per qualsiasi brano, di qualsiasi epoca. Anche per la musica acusmatica, che viene interpretata da chi sta al mixer, dall’impianto specifico per ogni concerto, anche quello casalingo, dall’ambiente acustico della sala pubblica o della stanza privata in cui viene eseguito. Dunque ogni incisione, se pur non è musica in senso cageiano, è comunque un documento che la testimonia. Può allora, ma questo sono io a dirlo, diventare musica se viene ascoltata come musica, senza abbandonarsi a facili identificazioni, senza i feticismi del brano. In fondo, una radio, un giradischi, per Cage, ma anche un computer e un cellulare sono strumenti musicali e parte del paesaggio sonoro che ci circonda. 

5) Pensando a Cage mi viene spesso in mente la sua conferenza Overpopulation and art il cui titolo fornisce un ottimo sunto dell’immensa quantità di festival, mostre, opere e lavori con cui siamo bombardati quotidianamente. Sembra quasi di essere arroccati a un’idea museale dell’arte, mentre per Cage e per alcuni artisti ancora oggi era/è ben altro. Può essere che con l’arrivo dell’intelligenza artificiale potremo sbarazzarci dell’idea di lavoro necessario a sostenerci per la vita e fare ciò che più ci aggrada come una pluralità di centri che Cage auspicava?

L’intelligenza artificiale porterà probabilmente dei cambiamenti così radicali che bisognerà forse ridefinire il concetto di musica. Non sono preparato in materia di futurologia, ma non ho difficoltà a immaginare che l’IA non farà che aumentare le distanze tra chi ha potere, ad esempio quello di diffondere la propria musica, e chi non ce l’ha. Se ognuno, almeno in teoria, potrà usare tutti i suoni che vuole, per produrre tutta la musica che vuole senza dover fare qualcosa di più difficile che premere un pulsante, allora la musica diventerà qualcosa che si dà per scontato, che non ha nessun valore speciale e per cui nessuno vorrà certo fare uno sforzo cognitivo per apprezzarla. Come una volta mi disse K.Stockhausen, “penso che la musica come la conosciamo dovrà diventare un qualcosa di underground per un po’, prima di poter essere di nuovo apprezzata”. Allora la musica sarà qualcosa di sempre più legato alle identità sociali del mondo globalizzato, qualcosa più da indossare che da ascoltare e che quindi farà resistenza allo sviluppo di una sensibilità aperta al suono. Il valore sovversivo della musica come qualcosa che è diverso da ciò che ci circonda e richiede una particolare attenzione sarà quindi sempre più rilevante e allo stesso tempo misconosciuto dai più. E se questo sembra descrivere il presente più che il futuro, allora vorrà dire che l’intelligenza artificiale non potrà che accentuare ulteriormente i problemi della situazione attuale.

6) Vista l’abitudine di mettere musica in sottofondo in qualsiasi situazione si potrebbe dire che ‘la musica sia ovunque’, anche se non come la immaginava Cage; la musica sembra un inevitabile e necessario contrappunto alle nostre attività, qualunque essa siano (cena, allenamento, ritrovo con amici, eccetera). Ciò è stato permesso dalla tecnologia e allora mi chiedo: come si può imparare ad ascoltare oggi e utlizzare la tecnologia in modo più cageano?

Cage ci ha insegnato che fare musica, nelle tre declinazioni del compositore, dell’interprete e dell’ascoltatore, è una pratica che può essere usata in modo sovversivo se viene utilizzata per combattere l’imposizione delle abitudini d’ascolto che ci viene dai media di massa. Allora, è proprio nell’incontro con le minoranze statistiche del repertorio d’ascolto, in quei brani e suoni che i media ignorano e che dobbiamo metterci a cercare perché sono nascosti,  che possiamo attuare una disabituazione dalla musica di massa. Dobbiamo cercare quegli autori, quei brani ma anche quei fenomeni sonori a cui non abbiamo facile accesso, così da diluire la presenza della musica inevitabile, cioè quella che ci viene continuamente proposta, che siamo obbligati ad ascoltare anche se non lo vogliamo e che a lungo andare ci forma intimamente. Ci si potrebbe chiedere perché farlo, perché fare la fatica, dato che si tratta di un’impresa difficile e ingrata, di allontanarci dalla musica di massa. La mia risposta è questa: per coltivare la sensibilità al suono, che è un elemento sensoriale primario; per aprire la percezione ai dettagli, ma soprattutto alla diversità delle pratiche sonore in senso generale, che è poi la diversità del mondo.

7) Sempre a proposito di tecnologia, data la facilità di reperimento di materiali audio e video, il senso del possesso dell’oggetto sembra sia in declino. C’è ancora chi colleziona certo, ma quando le quantità diventano ingenti, immateriali e facilmente reperibili diventa quasi più semplice farne a meno, staccarsene. Considerando che Cage era il primo a non voler collezioni o registrazioni di lavori suoi e altrui, questo indebolimento del legame tra persona e oggetto può essere considerato un progresso o una perdita? (penso agli estratti del diario di Cage dove si citano spesso Fuller e McLuhan)

Dal punto di vista dell’attaccamento del singolo agli oggetti e in una prospettiva di liberazione, come può essere vista dallo Zen, questo indebolimento del legame tra persona e oggetto è certamente una opportunità, che però, come ho detto poco sopra, può facilmente porsi al servizio di processi di assoggettamento. Poiché la formazione di senso e in definitiva del gusto dipendono dal repertorio di eventi sonori che abbiamo a disposizione e della loro frequentazione, chi ha la possibilità di controllare ciò che noi possiamo sentire, attraverso i media fluidi di massa, che oggi sono i suoni che sentiamo nei luoghi pubblici, oppure attraverso i social, i distributori di contenuti come Youtube e Spotify e la televisione, ha anche la possibilità di guidare la formazione di ciò che siamo. È vero che i suoni e rumori che ci circondano, cioè il cosiddetto paesaggio sonoro, sono ancora lì, almeno fino a quando i sistemi di realtà virtuale o aumentata e quindi la possibilità di manipolare in tempo reale i suoni che ci circondano, saranno diventati di uso comune. Tuttavia, il rischio è proprio che un impoverimento delle opportunità d’ascolto finisca con chiudere la nostra sensibilità su ciò che ci viene offerto, invece di aprirla all’universo. In questo senso allora, tutto quello che esula da ciò che ci propongono i media diventa una chiave per aprirci al paesaggio sonoro, ma anche alle sue possibilità legate all’immaginazione. Cage parla di smilitarizzazione del linguaggio, a proposito di “Empty Words”, ma avrebbe potuto benissimo parlare di smilitarizzazione della musica.

8) Curioso che il prossimo titolo della colanna Classici della Nuova Musica che il testo di Cage inaugura sia di Stockhausen perché mi viene in mente il famigerato testo di Cornelius Cardew “Stockhausen al servizio dell’imperialismo” dove viene messo sotto torchio anche Cage insieme al compositore tedesco. A distanza di più di trent’anni dalla sua morte, si può dire che Cage sia stato ‘assimilato’ e ormai faccia parte dell’establishment come lo sosteneva Cardew, oppure il suo messaggio suona ancora anarchico e rivoluzionario?

Cage, nel suo percorso artistico, ha seguito un processo di decostruzione dell’immaginario musicale di matrice europea. Io parlo di dismissioni: dall’idea di suono come opposto al rumore, dalle velleità espressive del compositore, dal materiale, dalle velleità espressive dell’interprete, dalla scrittura, dal metodo stesso, cioè dalla tecnica, poi dalla partitura e infine dall’idea stessa di opera artistica. Quello che però è rimasto, e non poteva essere altrimenti, è l’idea di quell’etichetta di un brano, che è prima di tutto il nome del compositore. Anche il brano forse più estremo, cioè Musicircus di cui abbiamo solo il titolo e la descrizione della prima esecuzione o, ancora meglio, 0’00”, in cui si chiede di svolgere un’azione e di amplificarne i suoni involontari che ne risultano, sono comunque legati al nome di Cage. Questa decostruzione non avrebbe che potuto terminare con la dismissione di Cage in quanto autore. E invece Cage non ha mai cessato di porsi come un compositore, perché il suo percorso non è un percorso di ascesi personale, cosa che comunque sarebbe rimasta nella sua sfera privata, bensì quello di un pensiero radicale del fare musica, che è una sfida della composizione perenne. Allora, se, almeno parzialmente, è vero che John Cage, da compositore in qualche modo inserito nel sistema delle commissioni e delle pubblicazioni, è diventato oggi un emblema, una istituzione, di cui scrivere e su cui pontificare, il suo percorso artistico rimane una espressione artistica unica e difficilmente ripercorribile senza rischiare di diventarne degli epigoni. 
Ho detto che un approccio radicale al fare musica, che intendo come una riflessione su quegli elementi che si danno per scontati, sono perenni e cioè sono sempre presenti nella storia europea della musica. Si potrebbe infatti dire che la storia stessa di questa tradizione è in primo luogo la storia del continuo trasferimento di quanto viene dato per scontato nell’idea di musica in un dato periodo, entro il dominio compositivo, cioè entro le possibilità di scelta arbitraria del compositore. Il pianoforte preparato, ad esempio, è l’idea di utilizzare il pianoforte in modo diverso da come lo si è sempre dato per scontato (con poche eccezioni). Allora, ogni pianoforte preparato è differente perché è il compositore a decidere come verrà preparato, potendo creare così ogni volta misture di suoni sempre diverse. 
Insomma, dal punto di vista del lavoro artistico, Cage si pone come esempio di un instancabile radicalismo della pratica musicale come pensiero, che si è spinto in profondità nel significato (della musica), come pochi altri compositori hanno fatto.
E proprio lì, ha scoperto un modo di comporre, suonare, ascoltare che sono la testimonianza del vuoto alle fondamenta di ogni “mito”, come appunto quello della musica. Oggi è sempre più evidente, e lo sarà di più quando le piattaforme musicali di intelligenza artificiale saranno ancora più funzionali e diffuse, che scrivere musica è prima di tutto un’attività di autotrasformazione, una tecnologia del sé, per dirla con Foucault, e allora il musicista fa dono, un dono spesso non richiesto, di una realtà prima inesistente, un nuovo brano musicale. E questo dono fornisce l’opportunità di un incontro, con l’interprete, con l’ascoltatore, in cui ognuno è preso dal proprio percorso esistenziale, dalle proprie sfide, dalle proprie sensibilità. Cage suggerisce, però, un modo per favorire questo incontro e cioè quello che gli viene dal Buddhismo Zen, quello legato all’approccio al suono come puro suono, liberato dalla ragnatela di significati che gli vengono dalla società. Si tratta di una tensione, di un orientamento a superare le proprie attese e i propri preconcetti, aperti alla diversità del mondo. Però, come sostiene Cardew nella sua critica, e su cui non aggiungerò qui altro per evitare divagazioni troppo lunghe, alle provocazioni di Cage prima o poi ci si abitua e il borghese (quanto la storia gli ha dato torto!) ascolta ormai i suoi brani come eventi sociali stravaganti. D’altra parte ci si abitua a tutto e allo stesso tempo è pressoché impossibile evitare questa abitudine. Ascoltare un brano per la seconda volta come fosse la prima non è solo difficile: è impossibile, perché richiederebbe di azzerare la memoria.
È chiaro, allora, che l’ascolto del suono in quanto suono e basta, cioè l’ascolto qui e ora come testimonianza dell’universo è una via proposta da Cage, che Cardew, impregnato com’era dall’ideologia maoista, non poteva capire, una via che è certamente difficile e faticosa che vuole portare alla liberazione, ancora oggi, proprio dalle ideologie e dai processi di assoggettamento in cui siamo avviluppati. Ed è questo ascolto, ma anche questa stessa quiete sia nella scrittura che nell’interpretazione, che rimane, a mio parere, una lezione sempre rivoluzionaria, sempre sovversiva, che dovrebbe accompagnarsi sempre: in quanto compositori o interpreti ma anche e soprattutto in quanto ascoltatori.




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