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John Cage al Festival Aterforum
(Ferrara, luglio 1991)

Nell’estate del 1991, a Ferrara, il festival Aterforum propose un programma in cui il protafonista principale fu John Cage, che sarebbe apparso per la penultima volta in Italia.
Diversi brani di John Cage furono eseguiti accanto a quelli Charles Ives (il titolo preciso della rassegna che vide John Cage protagonista fu infatti Cage / Ives / Thoreau), e alcuni lavori furono proposti per la prima volta in Italia o in Europa. Questo il programma completo:

Rassegna stampa Aterforum, 1991

(gli articoli riportati qui sotto sono stati ritrovati grazie ai preziosi archivi storici di Repubblica e de l'Unità)

Aterforum, a Ferrara omaggio a John Cage

(di Giordano Montecchi, l'Unità, mercoledì, 5 giugno 1991)


È stata presentata la nuova edizione di Aterforum, la rassegna musicale ferrarese che instancabilmente ogni estate, da sedici anni a questa parte, combattendo con budget ridotti all'osso e col rischio dell'omologazione, riesce a partorire qualche idea originale, proponendo musiche e autori fuori dai sentieri più battuti. Dal 25 giugno al 9 luglio prossimi, gli antichi cortili di casa Romei e del loro Castello Estense ascolteranno musiche antiche e nuove, secondo quel doppio binario che caratterizza Aterforum: da un lato Echi del diletto (voci del Rinascimento e del Barocco), dall'altro Cage/lves/Thoreau (Cent'anni di invenzione nella musica americana). La sezione ancient Music ospita sia gruppi come Pro Cantione Antiqua (25-6), i Tallis Scholars (26-6), il Consort of Musiche di Antony Rooley (30-6), sia rarità musicali come l'oratorio di G.B. Banani La morte delusa (27-6), mai rappresentato in epoca moderna ed eseguito dall'Ensemble tragicommedia di Stephen Stubbs o The Fairy Queen di Purcell (28-6) in una versione per teatro del burattini di Paolo Comentale.

L'altra sezione di Aterforum è sostanzialmente un omaggio a John Cage (presente a Ferrara il 1 luglio) Ma si tratta di un omaggio molto sui generis, perché le musiche di Cage alcune delle quali in prima esecuzione italiana come Freeman Etudes (Books III e IV, 1-7 violinista János Négyesy), Europera V (2-7, direttore Yvar Mikhashoff) e Postcard from heaven (7-7, Harp Ensemble di Milano) – saranno solo i1 punto di partenza per un itinerario in una vicenda culturale e musicale di cui in Europa (sembra un paradosso trattandosi di musica Usa. ma è cosi) siamo ben poco informati. Tra gli esecutori citiamo ancora lo Ives Ensemble (29-7), lo Schoenberg Ensemble (5-7), l'orchestra dell'Emilia-Romagna (6-7 e 9-7).

Nelle locandine, oltre a quello di Cage si leggono nomi di Ives, Copland, Gershwin, Carl Ruggles, Georges Antheil, Steven Sondhelm. Leo Omstein, Conlon Nancarrow, Paul Bowles (più conosciuto certamente come scrittore), William Duckwort, Michael Torke. Non si tratta di pura curiosità; Aterforum offrirà forse l'occasione di rileggere Cage inserendolo in uno sfondo culturale del quale ci siamo sempre disinteressati: non è un caso che fra dedicatori del festival figuri il nome dello scrittore Henry Thoreau. In questo quadro allora l'avventura di Cage e dei suoi compagni di viaggio diventa qualcosa che con l'avanguardia europea ha forse più differenze che tratti in comune. Ed è proprio l'interesse maggiore di questa nuova edizione.

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Cage un adorabile provocatore

(di Giordano Montecchi, l'Unità, mercoledì, 4 luglio 1991)


I vecchi folli sono più folli dei giovani ha detto più di tre secoli fa Rochefoucauld. E pensava non solo a John Cage, ma alla storia personale di ognuno di noi, una storia clinica che negli artisti, allenati al paradosso, si trasforma in quel processo miracoloso che ha il nome di maturità. La Rochefoucauld pensava senza dubbio a John Cage e al modo con cui lui pronuncia la parola musica, un modo che, confrontato ai balbetii superciliosi dei giovani compositori cresciuti fra conservatori e corsi di perfezionamento, sembra sempre, ancor più che trent'anni fa, quello di un inventore folle, di un angelico trasgressore.

Aterforum ha portato Cage a Ferrara nei giorni scorsi, consentendo a un pubblico numeroso e variopinto di godersi quella sua presenza quasi metafisica, di vecchio dallo sguardo che vi oltrepassa, dalla faccia scolpita, dalla risata improvvisa, così rara, se non unica, per un compositore di oggi. John Cage è un vecchio in jeans. L'espressione, irriverente e candida, è quella di chi ci dice in musica o a parole le cose che nessuno osa dire, oppure colui che mantiene intatta paradossalmente l'aura, il carisma dell'opera, dell'arte, dell'artista, proprio lui che sembrava avesse fatto di tutto per distruggerli.

E proprio nel fatto che ancora, oggi più che mai, il pubblico si fa incontro a lui e alla sua musica con fare adorante sia il segreto della sua intatta fragranza della sua provocazione. Una volta lo si insultava, ora lo si applaude e se qualcuno si diverte troppo rumorosamente ecco il vicino che vi apostrofa Un po' di rispetto per favore! Rispetto! È la vittoria finale, la più sottilmente esaltante, di Cage. La stessa forza coercitiva che ha obbligato il pubblico all'immobilità per un'ora e venti minuti di fronte a János Négyesy mentre eseguiva i Freeman Etudes XVII-XXXII per violino solo. Oppure li ha costretti a farsi trasparenti per sfuggire alla chetichella da quella sottile ragnatela sonora che stendeva su tutto il suo appagatissimo e rarefatto nonsense del sempre diverso-sempre uguale: suoni singoli, uno dopo l'altro, utilizzando tutte le possibilità offerte dalla tecnica del violino – niente violenza però – suoni frutto di lunghi solitari con mappe stellari, combinazioni preziose, assolutamente causali o determinate, ma sempre divinamente inutili. I Freeman Etudes non si possono ascoltare. O ci si lascia prendere nel misticismo contemplativo del loro svolgersi (Cage dormicchiava beato) o si esce. Molti uscivano, ma i bisbigli di quel violino sembravano fatti apposta per denunciare lo scricchiolare delle vostre suole, il ticchettio dei vostri tacchi.

La sera dopo un'altra prima italiana: la recentissima quinta puntata di Europera, un'ora di paesaggio musicale, la reinvenzione di un immaginario condominio popolato da appassionati di musica, melomani per lo più, dove le pareti divisorie si sono improvvisamente dissolte. Qua un pianoforte che suona – a lo si sente, a volte no, e rimangono solo i movimenti – struggenti trascinazioni operistiche (interprete il bravissimo Yvar Mikhashoff, direttore dell'esecuzione), qua e là dei tavoli con su una musica pop, un grammofono a tromba su cui vengono fatti girare vecchi 78 giti di arie d'opera, un televisore che a un certo punto si accende e lascia scorrere le immagini pubblicitarie di una rete qualunque; due cantanti, Lisa Hirst e Omar Emrahim, che ora cantano (non bene) Don Giovanni o Carmen o altro ancora, ora indossano maschere di animali. E poi il truckera, un rumore sordo che ogni tanto attraversava lo spazio in lungo e in largo come un camion (truck) che vi passa sotto il naso. Le luci sono casuali, illuminano ciò che non importa, ma tutto qui è senza un perché: è lì, semplicemente: solo vecchia musica, raccattata in soffitta e scelta con cura per evocare inequivocabilmente chissà che cosa: intanto il tempo vi scorre attraverso e voi ve ne state lì, curiosi come bambini in attesa della sorpresa, avvinti, contenti alla fine di picchiare forte le mani.

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John Cage, disordinato meraviglioso

(di Fabrizio Festa, la Repubblica, sabato, 7 luglio 1991)


Diciamolo subito: John Cage è persona serissima. Non che se ne potesse dubitare, in fondo. Ma quell'aura da giullare, quella fama da enfant terrible che, nonostante sia giunto all'alba degli ottant'anni, continua a precederlo ovunque si rechi, ha adombrato il rigore del suo procedere artistico. Certo, non era un mistero per gli addetti ai lavori. Non lo era e non lo è neppure per i suoi tanti amici ed estimatori, che affollavano, l'altra sera, il ridotto del Teatro Comunale di Ferrara. Un'occasione rara questa dell'inaugurazione della settimana che Aterforum dedica alla sua opera e a quella di Charles Ives e di altri americani per avvicinarlo nuovamente, in attesa di carpirgli il segreto di tanta divertita longevità musicale.

Forse, se di segreto si tratta, consiste proprio nella sua puntigliosa accuratezza, quella stessa che Cage rivela in ogni pagina, tanto metodico da ricordare appunto la serietà che qualsiasi bambino esplica nel gioco. Ecco Europera, che a Ferrara è stata presentata nella sua quinta versione e in prima nazionale, ergersi nella sua compiutezza ludica. Cage racconta: Quando il Teatro di Francoforte me l'ha commissionata, mi sono posto il problema delle voci. Ho chiesto: posso scrivere senza vibrato? Mi è stato risposto di no, tanto i cantanti avrebbero vibrato comunque.

E allora prende una decisione semplice e singolare a un tempo: Se non fanno quello che voglio, che cantino quel che gli pare. Si scelgano loro le arie. Così è stato. In scena ognuno ha portato e porta il foglio d' opera che preferisce. La musica, poi, va per conto suo, i costumi scelti per le prime due edizioni provengono da un' enciclopedia, le azioni sceniche dal dizionario, ogni parte per sé e tutte rette da quelle operazioni casuali, da quella sorta di calcolo combinatorio basato sulle mappe stellari, o sugli esagrammi dell'i-King, che il compositore americano predilige.

L'intera sua arte sta in tale meraviglioso, organizzato, rigoroso disordine. Analoga la vicenda dei trentadue Freeman Etudes per violino solo. L'avvio è in certo senso tradizionale: affrontare tutte le diverse possibilità dello strumento, giungendo ai limiti stessi dell'eseguibile. Anzi, Paul Zukovskij, il primo committente, rinunciò perché impossibili, e ne saranno Irvine Arditti e János Négyesy, che proprio all'Aterforum ne ha presentato la seconda serie, i primi spericolati interpreti. Ancora mappe stellari e i-King (per attribuire ad ognuno degli studi una specifica caratteristica. Uno dedicato all'allegato, l'altro al detaché; uno per le note singole, altri per sequenze di due, tre o più suoni).

Il culmine lo si raggiunge probabilmente nei numeri 17 e 18, ove tale è la densità della scrittura che Cage ha dovuto aggiungere una postilla: Si eseguano tante note, quante si è in grado di suonarne. D'altronde, per portarli a termine – svela l'autore – ho dovuto assumere un musicologo, che, ricostruendone la vicenda, mi dicesse quello che dovevo fare. E sorride. Contento sorride, dopo che serissimo, addirittura corrucciato, ha rispiegato ai presenti questi suoi giochi col caso, lasciando all'ironia, per altro, uno spazio minuscolo, qualche cenno qua e là e nulla più. La sua è sovrana leggerezza, lontana mille miglia dalla tediosa presunzione di altri compositori più paludati, forte ancora oggi dell'incoscienza del fanciullo.

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Cage, cartoline dal paradiso

(di Giordano Montecchi, l'Unità, lunedì, 9 luglio 1991)


Non un solo Cage, ma un'infinità. Tanti quanti sono i modi di comporre che il musicista californiano si è divertito a sperimentare nel corso di sessant'anni di attività. L'Aterforum di Ferrara, per due settimane, ha proposto a un pubblico di golosi un assaggio di lavori vecchi e nuovi, molti dei quali inediti in Italia. Cecilia Chailly e le dieci arpiste dell'Harp Ensemble di Milano protagoniste del concerto di chiusura.

Aterforum festival ha chiuso i battenti, dopo aver percorso come sua abitudine in due intense settimane, un doppio sentiero: la ricognizione nel passato lontano o dimenticato e l'esplorazione nel presente (o nel passato vicino). Alla fine del secondo itinerario, posto sotto la suggestiva insegna Cage/Ives/Thoreau – cioè dopo che in dieci concerti si è tentato di ricollocare John Cage nella sua cultura/coltura d'origine – la conclusione è che Aterforum ha compiuto un'opera meritoria, altamente istituzionale nel miglior significato del termine. É stata presentata una quantità di lavori vecchi e nuovi di Cage, spesso in prima italiana o europea. Nel contempo però – occasione ancor più interessante – si è curato di leggere questi lavori sullo sfondo di quel Novecento musicale statunitense colto che, come suggerisce il titolo, è figlio certo di Ives e delle utopie trascendentaliste di Thoreau, Emerson e compagni, ma che per il pubblico rimane paradossalmente uno dei territori musicali meno conosciuti (il paradosso è evidentemente il fatto che, viceversa, la musica Usa detiene per altri canali un predominio incontrastato).

Cage oggi ha settantanove anni e non li dimostra; la sua musica ne ha un po' di meno, ma dire quanti ne dimostri è impossibile. Proprio perché se una cosa Aterforum ha mostrato, è che non c'è un Cage, ma ce ne sono un'infinità, ognuno rappreso attorno a uno dei tanti modi di comporre e del concepire il mezzo musicale che l'autore californiano ha sperimentato in sessant'anni di attività. Constatazione non certo nuova, ma che diviene appariscente – e stridente – se si confronta questo modo di operare a quello europeo proprio dell'avanguardia tradizionale, che non ha mai smesso di considerare la radicale coerenza dei principi come un valore indiscusso, una stella fissa. Ma questo non significa affatto titolare Cage o della contraddizione. Perché è il termine stesso di contraddizione – un termine prettamente europeo, dialettico – che con Cage, Ives e Thoreau (ma anche con Gershwin, Nancarrow, Copland, Griffes, Bowles per dirne qualcun altro), diventa solo un arnese inutile o dannoso, quasi come lavorare la creta con lo scalpello.

Di fatto chi esce vincitore è l'Happy New Ears cageano, l'invito cioè a sturarsi felici le orecchie, di fronte al catastrofismo messianico, giovanilistico di Vengo a seppellire la musica, non a farne l'elogio. Vince in Cage l'idea irriducibilmente pragmatica di uno sperimentalismo che invita alla flessibilità che individua il vero inventare non nella ricerca maniacale del nuovo, ma nel rivolgersi al già esistente, nel collegare le cose in modo diverso.

I risultati possono essere un'impareggiabile Europera, ma anche certi improponibili Freeman Etudes o Cheap Imitation. L'ultima sera, il lassez laire di Cage si è tradotto in un palcoscenico sul quale, impotenti, si stagliavano dieci arpe. Cecilia Chailly, alla testa dell'Harp Ensemble di Milano, una squadra di giovani arpiste in divisa firmata Missoni, ha lavorato dapprima sulle prescrizioni di un datatissimo Winter Music, generato nel 1957 mediante le giocate cinesi dell'I-Ching e normalmente eseguito da un quantitativo di pianoforti variabili tra 1 e 21. Qui c'erano dieci arpe e il risultato era piuttosto amorfo (come del resto coi pianoforti). Arpa sola invece (quella di una Cecilia Chailly apparsa un po' timida), per un'archeologica ma profetica In a Landscape del 1948, anch'essa originariamente concepita per pianoforte. Quindici anni fa sarebbe apparsa un'americanata insopportabile. Costruita interamente su un arpeggiare (già, con l'arpa) dal flusso uniforme, levigato, indicibilmente eufonico e pacificato, In a Landscape si presenta oggi come una pagina neoromantica-minimal in anticipo di quarant'anni, in stupefacente (per altri insopportabile) equilibrio tra mielosità e rigorosa sintesi di mezzi.

Infine una prima europea: Postcard from Heaven, cartoline dal paradiso sulle quali Cage ha scritto solo che devono durare mezz'ora, che arrivati a metà si torna indietro e che si devono usare certi ragas, certe scale e certe combinazioni ritmiche. Per il resto fate voi. Dalle dieci arpe pilotate da mani gentili, non poteva uscire paesaggio sonoro più endemico, lievitante in un'atmosfera di totale eufonia contemplativa, dove però forse traspariva da parte delle giovani interpreti, messe di fronte alle incognite dell'improvvisazione, il bisogno eccessivo di schematizzare gli eventi. L'applauso è sgorgato fluente, a rincuorare chi aveva visto l'iniziale golosità del pubblico per la musica di Cage, una volta assaggiatone un pezzetto, inclinare impercettibilmente verso il torpore. Di questa musica forse aveva già capito tutto Antonin Artaud quando nel 1934 scriveva: Al mio caro amico Edgar Varèse del quale amo la musica senza averla mai sentita e perché ascoltando voi parlare di musica mi è possibile sognarne e perché so che con la vostra musica in rivolta noi potremo pervenire a una nuova condizione del mondo. Con Cage al posto di Varèse, il discorso fila, appunto finché non si tratta di ascoltare per davvero, o, addirittura, di mettersi in testa di cambiare il mondo.

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